sabato 25 luglio 2015

Chi non muore si rivede

Qualche settimana fa, in piena apatia da lutto canino, mi stavo aggirando per il supermercato in cerca di distrazioni, quando sono incappata, anzi no, sono stata aggredita, da un volume che troneggiava in una piramide di copie all'ingresso del reparto libri: 

GREY 
di E.L. James

Il mio sguardo moscio da burro dimenticato fuori dal frigo si è immediatamente rassodato, assumendo più o meno la consistenza di un uovo sodo, e gli occhi si sono allargati a tal punto che credevo avessero intenzione di oltrepassare i confini della faccia ed espatriare in Messico. Ho avuto un momento di blackout, di totale stupore, credo addirittura di aver aperto e chiuso la bocca come un pesce rosso che si domandava come fosse finito fuori dalla sua boccia. Ecco, io mi chiedevo più o meno la stessa cosa. Precisamente, mi chiedevo in che momento di distrazione il mondo fosse impazzito e diventato una versione in live action di Cartoonia. "Grey" mi guardava tronfio dalla sua copertina satinata ed elegante, ostentando una sobrietà che ha reso particolarmente vero l'ancestrale detto "non giudicare un libro dalla copertina". Quel malefico libro avrebbe potuto tranquillamente truffare Sherlock Holmes in persona ottenendo con l'inganno il copyright della sua celebre "elementare Watson". 
 E' stato così, fronteggiando quell'occhio inquietante sulla copertina, che mi sono ritrovata seriamente a credere che ci troviamo di fronte alle 10 piaghe d'Egitto versione 2.0: cavallette e fiumi di sangue potevano forse terrorizzare quei fifoni venera gatti degli antichi egizi, ma non certo la generazione del nuovo, fiammante millennio, armata di panino del Mc Donald in una mano e copia blue-ray di Saw (in 3D) nell'altra. No, la punizione divina stavolta doveva essere definitiva, esemplare, ma sottile, non immediatamente individuabile. L'Armageddon del 2015 non è uno tsunami, né una glaciazione da far gelare anche lo stupore, tantomeno un virus alla The Walking Dead, anche se ci siamo già più vicini. No, si tratta di un lento processo di de-logica, un ritorno all'automatismo, un recupero dell'omogeneizzato primordiale che era il nostro cervello. Un "out of order" neuronale collettivo, insomma. Un processo di semplificazione già iniziato tanto tempo fa e che ora muove le sue pedine migliori sulla scacchiera. Dopo l'ondata di reality shows declinati in ogni salsetta sempre più insipida, dopo Valeria Rossi e i Dari, i Teletubbies e i plastici di Bruno Vespa, ecco la nuova piaga d'Egitto: i libri di E. L. James, la nostra Moccia dall'accento yankee che passava il tempo sfornando biscotti a forma di strizza capezzoli. E. L. James, che ha attinto, come sua fonte di ispirazione massima, a Twilight. E. L. James, che ha allegramente scopiazzato i personaggi di quell'harmony annacquato nel fantasy riuscendo nell'impossibile intento di peggiorarlo. E. L. James, CON CUI CONDIVIDO IL GIORNO DI NASCITA! Ma forse sto andando un attimo fuori tema! Dicevo, E. L. James e le sue 50 sfumature di brivido (a voi decidere di che tipo), con il suo nuovo ideale dell'amore. Disney, fatti da parte, c'è un nuovo eroe in città a far battere i cuoricini delle fanciulle: il misogino anaffettivo con ripetuti traumi infantili. Basta con i principi azzurri che salvano la vita alla donzella in pericolo, noi adesso vogliamo la sufficienza nello sguardo, la limitazione della libertà, il leggero disgusto nella voce, vogliamo la devianza psichica, santo cielo! Vogliamo un uomo che, invece di rivolgersi ad un bravo terapeuta, opti per la più arcaica ma sempre efficace (nonché virile) "Occhio per occhio", sfogando le sue frustrazioni sulla prima malcapitata di turno che, guarda caso, sembra aver scambiato la sua personalità con quella di una zucchina stracotta. Ma mettiamo da parte per un momento questa versione psichiatrica dell'amore. 
Tralasciamo anche il fatto che, apparentemente, 125 milioni di persone finora abbiano evidentemente vissuto all'oscuro circa l'esistenza di harmony, film erotici e pornhub, perché esiste solo un modo in cui possa spiegarmi lo smodato successo di questo libro, spacciato per la nuova frontiera della trasgressione: ignoranza. 125 milioni di hamish sono usciti dai loro villaggi e sono stati accolti dalle amorevoli braccia della trilogia della James. 125 milioni di casalinghe americane degli anni '50 sono emerse da una ibernazione sperimentale ritrovandosi nel turbinoso 2015 con le sue 50 sfumature di decadentismo. 

Ma davvero, tralasciamo questo inspiegabile segreto di Fatima e sapete cosa? Tralasciamo anche la natura del libro in sé: libri brutti esistono dall'alba dei tempi e chiaramente la penna degli incapaci è sempre piena d'inchiostro. Quello che proprio non riesco, non posso tralasciare è questo ennesimo libro. Quello che mi lascia sconvolta è che la nostra scrittrice con un'idea dell'amore che affonda le radici nella Sindrome di Norimberga, conclusa questa entusiasmante avventura tra lacci, gatti a nove code e mordicchiate alle labbra, abbia deciso che cavallo vincente non si cambia e che era tempo di sfornare l'ennesima pagnotta. Una pagnotta dal sapore un po' troppo familiare, visto che è la STESSA storia raccontata dal punto di vista di Grey! Ora potete capire il motivo dell'emigrazione dei miei connotati facciali e il moto di indignazione verso quei 125 milioni di lettori che, a detta del quarto di copertina, stavano aspettando proprio questo libro. 125 lettrici, ad essere precisi. Cosa che fa montare ulteriormente la mia indignazione: quanto si deve essere scemi per comprare un libro che racconta la stessa, identica storia? Tanto vale comprare due copie del primo libro. Ma è a questo punto, nel pieno di un'invettiva contro l'autrice e la tipologia di femminile che rappresenta, che vengo colta da un dilemma morale: come giudicare la James? Un imbarazzante personaggio a cui togliere l'amicizia su Facebook o un genio del male alla Megamind? Una D'Annunzio senza talento o una cercatrice d'oro senza grandi aspirazioni? Una critica della nostra società o un suo prodotto? C'è sostanza dietro questo gigantesca proposta di un romanzo evidentemente scadente e retrogrado, un qualche messaggio latente? Perché un messaggio lo manda, questo ennesimo libro, ed è un grido di dolore, il segno che le persone ormai sono completamente perse in una dimensione avida di emozioni forti, di consumo e di possesso che non lascia più spazio al bello, alla contemplazione, all'armonia, al giudizio critico. Esiste solo lo scandalo, il consumo acritico, la massa priva di raziocinio guidata nelle scelte da chi grida più forte. Siamo davvero nell'era del turboconsumatore, della gadgetizzazione della vita, in cui tutto ciò che conta è un appagamento sfrenato del piacere privo di sostanza e di direzione? Il mio professore di italiano sosteneva che non fossimo mai usciti dal Decadentismo. Comincio a credere che avesse ragione. L'unica volta, tra l'altro. 

Duille

sabato 18 luglio 2015

Dolore

Di solito quando scrivo ascolto della musica, come se cercassi una colonna sonora alla mia voce di carta. Ma oggi non c'è musica ad accompagnarmi, perché il dolore non conosce musica, né suono.  Il dolore è vuoto. E' un vuoto pieno di silenzio, ma di un silenzio strano, che non ristora. Un silenzio assordante, oserei dire. Un silenzio pieno di tutti i suoni non emessi e delle parole non pronunciate, quindi un silenzio abbastanza ingombrante, se ci pensate bene. Il dolore è una matrioska di cavità che sembrano vuote ma che invece si rivelano piene di api fantasmi che ronzano di ciò che non è stato e di ciò che non sarà più. E' un ossimoro vivente, l'incontro/scontro tra antitesi.  
E' una tempesta devastante che resta intrappolata nei confini delle ossa  e che ribalta ogni prospettiva, lanciando in aria vecchie fotografie dai colori che sbiadiscono troppo in fretta. Il dolore è un vento pesante, che non si vede ma che occupa spazio, che invischia e rallenta, come se ci si muovesse in un mare gelato che irrigidisce i muscoli dello stomaco e che fa piangere ghiaccio pungente. Ci segue ovunque, mentre girovaghiamo per stanze popolate da ricordi che sbucano dalla coda dell'occhio o che sbocciano dal veloce movimento dell'iride, inattesi, dolorosi, ma quasi desiderati, solo per fingere ancora per un attimo che non sia tutto perduto, solo per illudersi ancora un po', per dare respiro prima di ripiombare nelle tenebre della nebbia tossica. Come un salto in alto che dura un secondo. Una mano adunca penetra nella schiena, le lunghe dita brune come rami invernali si attorcigliano sul cuore, lo tengono saldamente, schiacciando, di tanto in tanto, quando ci muoviamo troppo in fretta o quando un baluginio di sorriso scuote il muscolo pietrificato in questa gabbia di rovi. L'unica cosa che possiamo fare è stare fermi, immobili, accartocciati come foglie di carta in un angolo, aspettando che la morsa si allenti, che il dolore decida di lasciarci, anche se sappiamo che con sé si porterà la nostra felicità come l'abbiamo conosciuta finora, incastonata nel ricordo che ci tiene legati a lui, dolore del presente, ma che stringiamo ancora tra le braccia, piccolo cadavere morbido, libricino dalle pagine sgualcite di una vita che è finita con l'ultimo respiro esalato dall'ultima pagina. Non vogliamo lasciarlo andare, quel ricordo, quella fiammella che ci brucia le mani ma che ci scalda anche, in questa notte senza stelle e senza luna. Lo proteggiamo, lo coltiviamo, lo alimentiamo con il nostro respiro, mentre lui inesorabilmente raffredda, ripiombandoci nella solitudine di quel ghiaccio che ci stritola il cuore. Quando si spegnerà, anche la lunga mano dalle dita nodose si aprirà, mostrando il nostro piccolo cuore ammaccato, svuotato, ma ancora pulsante. Ma per ora è ancora vivo e caldo, quel ricordo, vivo e bruciante, vivo come le cicatrici che ci procura, ma a cui non possiamo ancora dire addio. E' un dolce dolore che ci fa tremare di singhiozzi, annegare nelle lacrime, perdere il fiato in mezzo al pianto, ma che odora ancora di familiare e a cui ci avvinghiamo come ad un vecchio maglione infeltrito, con le stesse mani adunche di quel dolore che ci stritola il cuore. 

Non lasciare andare, disperatamente, stritolare quella lana priva di senso senza lasciare che la sua anima spicchi il volo, dimenticandoci anche di prendere fiato perché respirare non è più importante ormai. Ciò che conta è piangere, svuotare quel pieno vuoto che ci schiaccia i polmoni, far uscire quelle parole che non osiamo più pronunciare, quei nomi che non potremo più dire, quegli abbracci che non potremo più dare, quella morbidezza che non sentiremo più sulla pelle. Respirare non è più importante, perché ogni respiro fa male, stringe la presa di quelle dita adunche e ci annega nel dolore scuro come il petrolio. Svuotati dentro e riempiti di nuovo di mare nero, al punto che pensiamo sgorgherà dagli occhi sotto forma di lacrime ebano. Vuoti e pieni allo stesso tempo, pieni di inchiostro, pieni di lancette di orologi fermi, pieni di occhi ciechi perché hanno perso la loro luce, pieni di risate che riecheggiano sinistre contro le pareti, pieni di ore pronte ad essere consumate e che ora non hanno più nessuno da abitare. Tempo che avevamo dedicato, ma che ora non ha più nient'altro che un cartellino di cartone con un nome scritto sopra. Un nome a cui non appartiene più un corpo, ma solo un ricordo, una fotografia sbiadita, un profumo lontano, un posto vuoto. Vuoto. Ma pur sempre ancora troppo pieno. 

Duille



Here I am!

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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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